Il Giusto nel processo: proposta di un percorso di lettura de “Il Giusto I” e “Il Giusto II” di Paul Ricoeur

Di Sabrina Peron
(sabrina.peron@gagisco.it)

Paul Ricoeur[1] ha pubblicato le sue analisi teoriche sulla giustizia in una prospettiva filosofica in due volumi: il primo volume uscito nel 1995 e il secondo nel 2001[2].

Complessivamente si tratta di una raccolta di saggi su come definire e in che cosa consista “il giusto”; tema che in questo testo verrò esaminato soprattutto nel suo aspetto più inquietante e misterioso: il processo.

 

Percorso 1: da Il concetto di responsabilità, in Il Giusto I, p. 51 e ss.

Il processo, ogni processo, presuppone anzitutto l’imputabilità del soggetto che viene sottoposto a giudizio.

Come Ricoeur correttamente osserva, imputare significa mettere in conto a qualcuno un’azione riprovevole, una colpa che ha infranto un’obbligazione o un divieto.

Tale nozione ha una duplice implicazione, morale e giuridica:

  • sul piano morale, si è ritenuti responsabili dell’altro uomo: “sono responsabile dell’altro che ho in carico”. Questa idea di “persona che si ha in carico”, sul piano morale, conduce ad un ampliamento di prospettiva che fa del vulnerabile e del fragile, in quanto rimesso alle cure dell’agente, l’oggetto diretto della sua responsabilità[3];
  • sul piano giuridico l’autore viene dichiarato responsabile degli effetti della sua azione e, tra questi, dei danni provocati, secondo la «trilogia: poteri – effetti nocivi – responsabilità». Ossia «quanto in avanti si estendono i nostri poteri, altrettanto si estendono le nostre capacità di effetti nocivi e altrettanto la nostra responsabilità dei danni provocati»[4]. Questa è l’essenza dell’imputabilità che, a sua volta, presuppone che la persona abbia la capacità di intendere e di volere.

In estrema sintesi, come insegna Rawls[5] (la cui opera viene richiamata ed analizzata da Ricoeur):

  • l’imputabilità, a sua volta, presuppone che ogni persona ha uguale diritto alla più estesa libertà compatibilmente con una simile libertà per gli altri[6];
  • la libertà per essere tale, richiede che nessuna perdita di libertà quale che sia il grado, può essere compensata da un accrescimento di efficacia economica (non si compra il benessere a spese della libertà);
  • la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero: una «teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste»[7];
  • in definitiva, ogni persona possiede una inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Tale fondazione, tuttavia, comporta che «una parte della nostra libertà» stia «nelle mani della giustizia»[8].

In un contesto in cui la giustizia è la prima delle virtù delle istituzioni sociali, la «virtù di giustizia si stabilisce su un rapporto di distanza dall’altro (…) immediatamente mediato dall’istituzione»[9]. Tuttavia, accanto ad una giustizia intesa come virtù che non cerca reciprocità, e non vuole restituzione, vi è una giustizia intesa come spettanza, ossia una giustizia che «impone la reciprocità nel dare e nel prendere, nel togliere e nel restituire»[10].

 

Percorso 2: da Interpretazione e/o argomentazione e L’atto di giudicare in Il Giusto I, p. 168 e ss. e p. 189 e ss.

L’istanza giudiziaria con le sue corti, i suoi tribunali, e i suoi giudici è solo uno dei luoghi in cui si dispiega il discorso giuridico.

Al di sopra di essa c’è l’istanza legislativa, produttrice delle leggi.

Accanto ad esse troviamo l’istanza dei giuristi e, last but not least, le varie e molteplici istanze delle quali è portatrice l’opinione pubblica[11] (in proposito Ricoeur, richiama il severo giudizio di A. Garapon[12], sull’ideologia «invisibile dei media», sotto la cui pressione riprendono gli assilli «del vecchio sonno della giustizia redentrice»[13].

Il processo, ogni processo, presuppone la legge e la pretesa di giustezza che sta alla base di ogni discorso normativo. Ma:

  • la legge è già di per sé è un arbitrio: il contenuto della legge è sempre un «comando e il comando è per definizione un atto arbitrario, un atto di onnipotenza»[14];
  • il processo si pone anche con una sua totale autonomia rispetto alla legge. Ad esempio nel caso della pena di morte, il «giudice ucciderebbe perché la legge impone di uccidere: il momento dell’assassinio legale non sarebbe nel processo ma nella legge […] si tratterebbe di una questione di diritto sostanziale non processuale […]. Ma la realtà è che chi uccide non è il legislatore, ma il giudice, non è un provvedimento legislativo, ma un provvedimento giurisdizionale»[15].

Di per sé lo scopo del processo «non è altro che giudizio e formazione di giudizio, esso dunque se ha uno scopo, lo ha in se stesso»[16].

Al di là di tale auto fondazione[17], al processo – ed al giudizio che il processo inerisce – è affidato il compito di troncare, di separare le parti ed istituire una giusta distanza tra le stesse. Dunque, il senso forte del termine giudicare non è soltanto opinare, valutare, ritenere vero, ma – in ultima istanza – prendere posizione. Il processo dunque dovrebbe assolvere il fine di accertare la «verità del fatto che si qualifica come giuridicamente rilevante secondo la norma che viene applicata», secondo il principio di legalità[18].

L’atto del giudicare consiste nel «de-terminare delle sfere di attività nel de-limitare le pretese dell’uno e le pretese dell’altro»[19] e nel correggere le distribuzioni ingiuste quando l’attività di una parte consiste nell’invadere il campo di esercizio delle altre parti. In questo senso Ricoeur richiama la definizione romana: suum cuique tribuere, attribuire a ciascuno il suo[20].

Affinché l’atto del giudicare, nella sua forma giudiziaria, possa astrattamente considerarsi legittimo e quindi possa essere accettato, sono necessarie alcune pre-condizioni:

  • l’esistenza di leggi scritte preesistenti che stabiliscono il diritto e la proporzione tra il crimine e il castigo: nullum crimen, nulla poena sine lege
  • la presenza di un quadro istituzionale: i tribunali le corti;
  • l’intervento di persone qualificate, competenti ed indipendenti incaricate di giudicare;
  • lo svolgersi di un processo attraverso un dibattimento in cui alle parti viene garantito uguale diritto di (libera) difesa, ed cui il pronunciamento del giudizio (con eventuale condanna ad una pena) costituisce il punto terminale: nulla poena sine iudicio.

Il dibattimento assolve quindi la funzione di condurre la causa pendente (il conflitto) da uno stato di incertezza a uno di certezza e si presenta come uno scontro di parole (argomento contro argomento) dove le armi sono uguali per tutte le parti coinvolte.

 

Percorso 3: da L’atto di giudicare in Il Giusto I, p. 189 e ss. [21]e Le gardien despromesses di Antoine Garapon, in Il Giusto II, p. 189 e ss.

La sentenza (il giudizio) come atto terminale del processo, rappresenta anche la chiusura di un’alea. La sentenza è la parola che dice il diritto, che mette fine all’incertezza, assegnando alle parti i posti che determinano la loro giusta distanza[22].

Ricoeur paragona il processo ad una partita a scacchi: le «regole del gioco sono note ma si ignora ogni volta come ogni partita sarò condotta al suo temine». Il processo sta al diritto come la partita di scacchi sta alla regola: in entrambi i casi bisogna andare fino in fondo per conoscere la conclusione[23].

L’atto del giudicare all’interno dell’alea del processo dice il diritto all’interno di una situazione singola esprimendone le forza attraverso il duplice rapporto che esso intrattiene con la legge:

  • da una parte, l’applicazione della legge al singolo caso (il giudizio determinante di Kant);
  • da altra parte, ma al contempo, l’interpretazione della legge al singolo caso[24], dato che nessun caso è pura e semplice esemplificazione della regola.

Infine il giudizio non si limita a mettere fine ad un processo, perché apre la strada a tutto un corso di giurisprudenza nella misura in cui crea un precedente.

Il giudicare significa quindi collocare un caso singolo al di sotto di una regola (generale e astratta).

Ma se sentenza è la parola che dice il diritto, la funzione minimale del giudizio è quella di dire il diritto: non già punire, riparare, bensì pronunciare la parola che anzitutto accerta e definisce i fatti: e che se all’esito di tale accertamento li qualifica come reato, nomina il crimine, collocando chi ha commesso il crimine e chi l’ha subito (la vittima) al loro giusto posto.

In questo contesto, la giustizia è di sostegno alla democrazia che pure é opera di parola, di discorso. Dunque, ancor prima della sua funzione di (eventuale) autorizzazione della violenza legittima, la giustizia é una parola e il giudizio è un dire pubblico. Tutto il resto ne discende.

Il processo innalza l’arte del confronto verbale con l’aiuto della retorica: l’arte dell’argomentare che mira a far applicare al caso specifico le norme generali ed astratte, il che implica un’interpretazione dei fatti legale e narrativa.

 

Percorso 4: da Le gardien despromesses di Antoine Garapon e Giustizia e vendetta in Il Giusto II, p. 189 e ss. e p. 264 e ss.

Sullo sfondo del processo c’è il conflitto, la vertenza la controversia il litigio e sullo sfondo del conflitto c’è la violenza.

Il posto della giustizia si trova così segnato dalle varie alternative che una società oppone alla violenza, alternative che tutte insieme definiscono lo stato di diritto.

La giustizia si oppone non solo alla violenza tout court ma anche a quella simulazione di giustizia che è la vendetta, ossia l’atto di rendersi giustizia da soli.

Ma mentre la vendetta si dirige verso l’altro (trasforma l’altro da soggetto in oggetto di una pura signoria di fatto[25]) la giustizia, invece é orientata verso l’altro, nella misura in cui deve tener conto dell’esistenza, dei bisogni e delle esigenze di qualcun altro, ossia: della vittima, del colpevole e – come cornice generale – delle istanze che una data società esprime all’interno di uno Stato di diritto.

La giustizia non può essere identificata con la soppressione tout court della violenza, ma con il suo spostamento dalla sfera privata (priva di ogni controllo e garanzia) a quella pubblica (sottoposta a controlli e garanzie). O per dirla con Benjamin da fine la violenza diventa mezzo (per fini di giustizia). In quanto mezzo del potere ogni violenza o instaura o conserva il diritto[26]. Dopodiché, il diritto moderno toglie ogni violenza alla persona singola come soggetto giuridico, avocandola sé: l’istituzione del diritto è l’istituzione di un potere, ossia atto che manifesta la violenza[27].

Come accennato, il processo é una cerimonia di linguaggio al cui termine può essere pronunciata la parola di giustizia (la sentenza). In questo quadro cerimoniale si svolge un complesso gioco di linguaggio retto da regole di procedura che assicurano – attraverso l’imparzialità, la parità delle armi e il contraddittorio – l’equità richiesta dal processo per non sconfinare nell’arbitrio e quindi nell’ingiustizia. Come non ricordare in proposito la Storia della Colonna Infame dove «quell’infernale sentenza»[28], dopo la sua lettura, portava «que’disgraziati» a «confermare, anzi allargare le loro confessioni», cosicché la «speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte […], li fecero, a ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone». Ne risulta una giustizia pervertita che riesce non solo a far morire atrocemente degli innocenti, ma – in un’ultima ed aberrante istanza – riesce a farli morir colpevoli[29].

Le giuste regole procedurali costituiscono un avanzamento della giustizia a spese della vendetta: senza dimenticare che senza un processo giusto, la vendetta e la violenza si travestono da giustizia. Più o meno sotto traccia, resiste nella storia contemporanea la presenza «una realtà punitiva che risulta segnata più radicalmente dall’idea della sospensione di alcuni diritti fondamentali, e quindi dalla stessa violazione dei diritti dell’imputato e dell’uomo, il quale appare come una pura cosa nelle mani di chi lo detiene secondo una qualche legge»[30].

Ciò posto, quindi, residua sempre un grado di violenza. La violenza che non cessa di affermasi alle due estremità dell’intero processo:

  • la violenza come dato iniziale del processo (la violenza è una minaccia per il diritto «non per i fini che essa persegue, ma per la mera esistenza fuori dal diritto»[31]);
  • la violenza della pena che discende dalla condanna, la quale «esercita un potere sulla libertà e, ancora in certi paesi, sulla vita e la morte»[32]

(senza voler considerare che il processo stesso può essere di per sé una pena, può quindi anche essere che ciascuno sia «intimamente innocente», ma che, in ultima analisi, il «vero innocente non è colui che viene assolto, ma colui che passa nella vita senza giudizio»[33]).

 

Percorso 5: da Sanzione, riabilitazione e perdono, in Il Giusto I, pp. 196 ss.

Il processo consiste dunque nello stabilire una giusta distanza tra il misfatto che scatena la collera privata e pubblica e la punizione inflitta dall’istituzione giudiziaria. Mentre la vendetta opera un cortocircuito tra le due sofferenze quella subita dalla vittima e quella inflitta dal vendicatore.

Ciò posto quale può essere il ruolo del perdono?[34].

Anzitutto il «perdono è un valore non soltanto sovra-giuridico ma anche sovra-etico»[35]. Inoltre, e soprattutto, il perdono può essere esercitato solo dalla vittima, non è mai dovuto, deve essere domandato e può sempre essere rifiutato[36].

Il perdono, il vero perdono gratuito, anzitutto non è:

  • non è il prodotto dell’usura del tempo: «siffatto dimentico perdono è piuttosto amnesia che amnistia, piuttosto astenia o atrofia che generosità, giacché risulta dall’anestesia e dall’apatia crescenti»[37];
  • non è una scusa intellettiva, perché il perdono a «base di scusa si riduce (…) a semplice constatazione che non c’è mai stata offesa e che l’idea di una malvagità radicale è un miraggio completamente illusorio»[38];
  • non è una facile liquidazione, perché il perdono dichiara il peccato nullo e non avvenuto benché lo sappia avvenuto, il perdono, dunque fa «come se» a «prezzo di uno sforzo sovraumano», mentre il liquidatore fa «come se» per «leggerezza», per «passar sopra alla colpa»[39].

I segni del vero perdono invece sono identificati nel fatto che questo:

  • è un avvenimento datato che si produce in un certo istante storico;
  • è un dono gratuito che si dà all’offensore che lo richiede[40];
  • è un rapporto personale con qualcuno[41].

Il perdono é un valore sovra-giuridico e sovra-etico, che può essere esercitato solo dalla vittima, che non è mai dovuto, che deve essere domandato e che può sempre essere rifiutato[42].

Il perdono ha incontrato l’imperdonabile ossia il debito infinito, il danno irreparabile (perdonare il perdonabile, il «veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre perdonare, non è perdonare», non è perdono). In altre parole è solo con l’imperdonabile e, quindi, con la misura senza misura, con la mostruosità di un male radicale, che il perdono, se c’è, si misura[43].

La finalità del perdono é in rapporto con la memoria, il suo progetto non é l’oblio, ma é spezzare il debito. Il perdono é una sorta di guarigione della memoria, il compimento del suo lutto. Con il perdono «non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, a livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi (…) il nodo dei conflitti inestricabili, delle controversie insuperabili»[44].

Da ultimo il perdono accompagna la giustizia nel suo scopo di sradicare la vendetta e di operare una catharsis[45]. Del resto la «tragedia greca ci ha insegnato che Erinni e Eumenidi sono le stesse, Hegel scrisse: le Eumenidi dormono, compaiono solo se chiamate»[46].

Les Eumenides dorment, mais le crime le ré veille.

[1] Testo dell’intervento tenuto il 12 dicembre 2013 presso la Libreria popolare di Milano, in occasione della presentazione del libro Ricoeur Filosofo del ‘900, di F. SARCINELLI, Mimesis, Milano, 2013. Alcune di queste riflessioni, in parte ne riprendono altre contenute in Come un cane! – Il processo, la colpa, la vergogna, la sopravvivenza, in http://www.lawandliterature.org/area/documenti/Peron%202013.pdf.

[2] Entrambi pubblicati in Italia da Effatà Editrice, Torino, rispettivamente nel 2005 e nel 2007 con la traduzione di D. IANNOTTA.

[3] Scrive P. RICOEUR: «La responsabilità non si riduce più al giudizio sul rapporto tra l’autore dell’azione egli effetti che questa provoca nel mondo ma si estende al rapporto fra l’autore dell’azione e colui che la subisce, al rapporto tra agente e paziente dell’azione. L’idea di persona che si ha incarico congiunta con quella di cosa che si ha in custodia conduce a un allargamento che fa del vulnerabile e del fragile, in quanto rimesso alle cure dell’agente, l’oggetto diretto della sua responsabilità» (P. RICOEUR, Il concetto di responsabilità, in Il Giusto, vol. 1, p. 71).

[4] P. RICOEUR, Il concetto di responsabilità, cit., p. 73.

[5] J.B. RAWLS, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2008. L’opera di Rawls è analizzata da P. Ricoeur in E’ possibile una teoria semplicemente procedurale della giustizia?, in Il Giusto, vol. 1, p. 80 e ss.

[6] Osserva Cerri sui rapporti tra libertà ed eguaglianza: la «libertà umana può esistere anche senza ordinamento giuridico (immaginando almeno l’ipotesi di un individuo che si trovi a lungo a vivere isolato) e, dunque, senza eguaglianza; mentre difficile sarebbe ammettere il contrario. L’eguaglianza presuppone un interesse ed è misura d soddisfacimento di questo; la libertà presuppone l’eguaglianza solo quando sia “libertà giuridica”, e non ancora quando è pulsione naturale dell’animo» (A. CERRI, L’eguaglianza, Editori Laterza, Bari, 2005, p. 115).

[7] J.B. RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., p. 6.

[8] P. RICOEUR, Il momento della decisione nell’atto medico e nell’atto giudiziario, in Il Giusto, vol. II, p. 271.

[9] P. RICOEUR, Introduzione, in Il Giusto, vol. I, p. 27.

[10] A. JELLAMO, Sul perdono, in Dike kai nomos, 2011, 1, pp. 73 e ss.

[11] Essenziale in ogni democrazia è la presenza di una «opinione pubblica consapevole». Difatti a «differenza di tutte le altre forme di governo, le quali non solo possono ma devono farne anche a meno, in democrazia essa è una conditio sine qua non» (G. ZAGREBELSKY, Imparare la democrazia, Roma, 2005, p. 23). Habermas la definisce come «l’attività razionale di un pubblico capace di giudizio» (J. HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, Editori Laterza, Bari, 2002, p. 104). Difatti, poiché «l’opinione pubblica non coincide con la verità», in quanto «doxa, e non episteme», nel momento in cui si «forma e si afferma nel dibattito, essa esprime un atteggiamento razionale, critico e ben informato» (BOBBIO – MATTEUCCI – PASQUINI, Dizionario di politica, voce Opinione pubblica, TEA, Milano, 2000, p. 705).

[12] A. GARAPON, Les gardien des promesses. Le juge et la democratie, Gallimard, Parigi, 1996 (parzialmente tradotto in italiano: I custodi dei diritti: i giudici e la democrazia, Feltrinelli, Milano, 1997).

[13] P. RICOEUR, Les gardien des promesses di Antoine Garapon, in Il Giusto, vol. II, p. 191.

[14] Come osserva S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, p. 16, il contenuto della legge è sempre un «comando e il comando è per definizione un atto arbitrario, un atto di onnipotenza». Nel nostro Paese, inoltre, da lungo tempo oramai si assiste al triste fenomeno di un’inflazione legislativa, avvelenato frutto di un sistema altamente burocratizzato che sistematicamente ricorre al Parlamento per mettersi al riparo dalle decisioni da assumere (cfr. S. CASSESE, Lo stato introvabile, Donzelli, 1998, p. 32 – secondo l’Autore lo Stato italiano «è debole e inefficace […] onnipotente e insieme introvabile»). Osserva sempre Cassese, come nel nostro Paese la qualità della legislazione sia «pessima e la sua quantità enorme». Si tratta di leggi il cui contenuto principale è di carattere amministrativo (in realtà sono «atti di amministrazione in veste legislativa») emanate per «evitare l’accollo di responsabilità», così, S. CASSESE, Non tutte le norme son utili, in Il Sole 24 Ore, 02.02.2013.

[15] S. Satta, Ivi, p. 17.

[16] A. Jellamo, Il terribile giudizio. Rileggendo Salvatore Satta, in M. P. Mittica (a cura di), Dossier Diritto e Narrazioni. Temi di diritto, letteratura a altre arti. Atti del II convegno nazionale della ISLL, Bologna 3-4 giugno 2010, in www.lawandliterature.org., p. 187.

[17] Con tutte le pericolose conseguenze che essa comporta: il processo, portato al suo estremo non è altro che produzione di giudizio, svincolato dall’attuazione della legge, dalla difesa di un diritto soggettivo e dalla punizione del reo; ed affrancato pure dalla giustizia o dalla ricerca della verità. Perché se il processo è questo, allora non resta che la lucida constatazione di Primo Levi: «dunque è così, questo è il destino umano, si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il tribunale non ci rivelerà mai» (P. Levi, Nota del traduttore, in F. Kafka, Il Processo, Trad. di P. Levi, Einaudi, Torino, 1995, p. 253). Una colpa irrimediabile come un destino: la colpa di essere nati ebrei o zingari, la colpa di essere omosessuali, la colpa di tare ereditarie e di malattie congenite, la colpa indotta da alcune situazioni ambientali, la colpa di appartenere a certe classi sociali (G. Scaramuzza, Il processo e la colpa, in Kafka a Milano, Mimesis, Milano, 2013).

[18] M. TARUFFO, La verità nel processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 4, 1117. Osserva l’Autore che «in linguaggio giuridico, si può dire che l’accertamento dei fatti in giudizio è vero relativamente alla quantità e alla qualità delle prove che lo confermano. Se — come si è detto più sopra — si pensa ad un processo nel quale vengono escluse, per le ragioni più diverse, prove rilevanti, allora si avrà una situazione in cui la decisione sui fatti sarà scarsamente veritiera (o non sarà veritiera affatto se tutte le prove che potrebbero portare alla conoscenza dei fatti vengono escluse). La situazione ottimale è invece quella in cui tutte le prove rilevanti vengono ammesse ed effettivamente acquisite in giudizio, poiché in questo caso la conferma della veridicità di tale decisione sarà relativamente più elevata (la più elevata possibile), e si potrà massimizzare l’approssimazione ad una ricostruzione dei fatti corrispondente alla realtà».

[19] P. RICOEUR, L’atto di giudicarei, in Il Giusto, Vol. I, p. 192.

[20] P. RICOEUR, L’atto di giudicarei, in Il Giusto, Vol. I, p. 192.

[21] P. RICOEUR, L’atto di giudicare, in Il Giusto, vol. 1, p. 191.

[22] Scrive Ricoeur: «questa giusta distanza tra le parti a confronto, troppo vicine nel conflitto e tropo lontane l’una dall’altra nell’ignoranza, l’odio o il disprezzo, riassume abbastanza bene, io credo, i due aspetti dell’atto di giudicare: da una parte decidere, mettere fine all’incertezza, separare le parti; dall’altra far riconoscere a ciascuno la parte che l’altro prende alla stessa società, in virtù di cui il vincente e il perdente del processo sarebbero reputati come aventi ciascuno la sua giusta parte in quello schema di cooperazione che è la società» (P. RICOEUR, L’atto di giudicare, in Il Giusto, vol. 1, p. 195.

[23] P. RICOEUR, Ivi.

[24] Osserva Ziino come l’interpretazione sia «in divenire e in continua evoluzione dovendosi adattare all’evolversi dei valori sociali nel tempo. L’interprete deve accertare se la norma non abbia maturato un altro e nuovo significato diverso dal contesto sociale nel quale venne promulgata. E’ rimesso alla sensibilità dell’interprete individuare quali nuove esigenze la legge può soddisfare nelle mutate condizioni temporali, sociali, di vita, sempre col rispetto del senso proprio delle parole» (D. ZIINO, Profili dell’interpretazione giuridica, Giuffrè, Milano, 2011, p. 37).

[25] Sul soggetto che diventa oggetto di una pura signoria di fatto, veda G. AGAMBEN, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 13, in relazione alla condizione dei detainees di Guantanamo.

[26] W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, p. 16, liberamente consultabile in www.filosofia.it.

[27] W. BENJAMIN, Ivi, p. 26.

[28] A. MANZONI, La storia della Colonna Infame, Einaudi [Biblioteca della Pleiade], Torino 1995, p. 651.

[29] Scrive Manzoni, in tal modo «que’giudici» riuscirono «non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli», Ivi, p. 651. Osserva G. BENVENUTI, La verità alla prova. Riflessioni sul contraddittorio, Margiacchi – Galeno, Perugia 2013, p. 31: «lo scopo ultimo del sistema inquisitorio è la verità ad ogni costo, costi quel che deve costare. L’organo inquirente-giudicante formula un’ipotesi per cercare la verità, ma finisce per cercare la verità nella sua ipotesi. E così l’ipotesi diventa un teorema. Come nella manzoniana storia della colonna infame, la cieca caccia al colpevole si traduce spesso nella cieca condanna dell’innocente».

[30] M. DONINI, ll diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 2, 735.

[31] W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, cit., p. 9.

[32] P. RICOEUR, Giustizia e vendetta, in Il Giusto, vol. II, p. 271, che così continua «nel momento della deposizione della sentenza, questa parte di giustizia è , nello stesso tempo, una parola d i forza, dunque, in una certa misura di violenza».

[33] S. SATTA, Il mistero del processo, cit., p. 27.

[34] Sul tema del perdono si veda sempre P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna, 2004. Si veda altresì il saggio di A. JELLAMO, Sul perdono, cit., pp. 73 e ss.

[35] P. RICOEUR, Sanzione, riabilitazione e perdono, in Il Giusto I, p. 209. Osserva sempre Ricoeur come la colpa sia il «fardello che il passato fa pesare sul futuro. È questo fardello che il perdono vorrebbe alleggerire, ma all’inizio questo fardello pesa: ed è sul futuro che pesa» (P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, 2004, p. 37.

[36] P. RICOEUR, Sanzione, riabilitazione e perdono, cit., p. 209.

[37] V. JANKÉLÉVITCH, Il perdono, Istituto Propaganda Libraria, Milano,1968, p. 51. Del medesimo Autore si veda anche: V. JANKÉLÉVITCH, Perdonare?, Giuntina, Firenze, 1987.

[38] V. JANKÉLÉVITCH, Il perdono, cit., p. 95.

[39] V. JANKÉLÉVITCH, Ivi, p. 146.

[40] F. SARCINELLI, Paul Ricoeur filosofo del ‘900, cit., p. 256 «la gratuità del dono implica un atto di fiducia che non garantisce a priori per il futuro un comportamento coerente con la fiducia accordata».

[41] V. JANKÉLÉVITCH, Ivi, p. 18, secondo cui il «vero perdono è un avvenimento datato che si produce in tale o tal’altro istante del divenire storico; il vero perdono, in margine a ogni legalità, è un dono gratuito dell’offeso all’offensore; il vero perdono è un rapporto personale con qualcuno». Con riguardo a quest’ultimo aspetto, osserva H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991, p. 178 che il «perdono e la relazione che esso stabilisce sono sempre questioni eminentemente personali (anche se non necessariamente individuali o private) in cui ciò che fu fatto è perdonato a chi lo ha fatto». Dello stesso avviso, sia pure in modo più problematico, J. DERRIDA, Perdonare, cit., pp. 58-59: la questione del perdono dovrebbe «sorgere solo nel têtê-à- têtê o nel faccia a faccia tra la vittima e il colpevole, mai attraverso un terzo per un terzo. E’ possibile? Un tale têtê-à- têtê, in tale faccia a faccia è possibile? Il perdono, implica, forse, fin dall’inizio, come per ipotesi, l’ingresso in scena del terzo che tuttavia esso deve o dovrebbe escludere. In ogni caso, secondo lo stesso buon senso, nessuno sembra avere il diritto di perdonare un’offesa, un crimine, un torto commesso nei confronti di qualcun altro. Non si dovrebbe mai perdonare nel nome di una vittima sopratutto se questa è radicalmente assente dalla scena del perdono».

[42] P. RICOEUR, Sanzione, riabilitazione e perdono, in Il Giusto I, p. 209.

[43] J. DERRIDA, Perdonare, cit., p. 47 e p. 59.

[44] P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., p. 117, «c’è poi il nodo dei danni e dei torti irreparabili: bisogna allora rompere con la logica infernale della vendetta perpetuata di generazione in generazione. In questo caso il ricorso al perdono fa fronte alla spirale della vittimizzazione, che trasforma le ferite della storia in pietose requisitorie. È qui che il perdono sconfina con l’oblio attivo: non con l’oblio dei fatti in realtà incancellabili, con del loro senso per il presente e il futuro» (p. 199).

[45] P. RICOEUR, Sanzione, riabilitazione e perdono, in Il Giusto I, p. 210.

[46] P. RICOEUR, Sanzione, riabilitazione e perdono, cit., p. 210.

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