Come un cane! Il processo, la colpa, la vergogna, la sopravvivenza.

di Sabrina Peron
(sabrina.peron@gagisco.it)

In this paper the author examines the relationships between The Process by Franz Kafka and The Mystery of the Process by Salvatore Satta, with the aim to understanding the dark side of the judicial decision.

«Qualcuno deve aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato»[1].

Il noto incipit de Il Processo è un’ipotesi più che un dato di fatto[2]. Da tale ipotesi si dipana una processo misterioso, scandito da una procedura incomprensibile, il cui iter «è già condanna senza investigazione e senza sentenza»[3] e che legittima la domanda: «Il procedimento stesso non è un castigo?»[4]. Nel processo si giudica una colpa indecifrabile, dove l’unica circostanza scontata è la condanna, irrevocabile e già data in partenza[5].

Il processo, ogni processo non solo quello di Kafka, presuppone la legge (che già di per sé è un arbitrio[6]), ma il processo si pone anche con una sua totale autonomia rispetto alla legge[7]. Un’autonomia che comporta la volontà del processo stesso, anche quando esso si riduce ad un mera parodia della giustizia[8]. Perché lo scopo del processo «non è altro che giudizio e formazione di giudizio, esso dunque se ha uno scopo lo ha in se stesso». Il che – come osserva Satta – «è come dire che non ne ha alcuno»[9]. Ma allora, se «il giudizio è processo, il processo è giudizio. Il processo proietta sul giudizio la sua essenza di atto “senza scopo”»[10].

Alla necessità ontica del principio nulla poena sine iudicio, non si sottrae neppure il misterioso Tribunale – al quale «appartiene tutto»[11] – che giudica la colpa di Josef K. eseguendo la sentenza solo alla conclusione di un procedimento che lento trapassa nel verdetto[12]: come pedantemente spiegherà l’avvocato Huld a Josef K., «il processo è entrato in una fase in cui nessun aiuto è più consentito, in cui esso passa nelle mani di corti non più accessibili, in cui persino l’imputato non può più essere raggiunto dall’avvocato»[13]. Ma a questo punto il mistero del processo si infittisce, perché «se il giudizio è necessario alla pena, la pena appare necessaria al giudizio: nullum iudicium sine poena. Si direbbe anzi che tutta la pena è nel giudizio, che la pena azione – il carcere, il carnefice – interessino soltanto in quanto sono prosecuzione del giudizio»[14].

In questo senso Il Processo di Kafka conterrebbe «un’intuizione profonda sulla natura del diritto»: il diritto non è tanto norma, quanto, semmai, «giudizio e, quindi, processo. Ma se l’essenza della legge – di ogni legge – è il processo […], allora esecuzione e trasgressione, innocenza e colpevolezza, obbedienza e disobbedienza si confondono e perdono importanza»[15].

Il processo, quindi, non è altro che produzione di giudizio, svincolato dall’attuazione della legge, dalla difesa di un diritto soggettivo e dalla punizione del reo; ed affrancato pure dalla giustizia o dalla ricerca della verità. Ma se il processo è questo, allora non resta che la lucida constatazione di Primo Levi: «dunque è così, questo è il destino umano, si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il tribunale non ci rivelerà mai»[16]. Dice Josef K. «la mia innocenza non semplifica la colpa […]. Bisogna tener conto di mille sottigliezze; il tribunale ci si perde dentro, ma alla fine chissà da dove, da dove prima non c’era stato nulla, tira fuori una grossa colpa»[17]. È una colpa irrimediabile come un destino: la colpa di essere nati ebrei o zingari, la colpa di essere omosessuali, la colpa di tare ereditarie e di malattie congenite, la colpa indotta da alcune situazioni ambientali, la colpa di appartenere a certe classi sociali[18]. Colpevole diventa chi è ascritto ad una «razza inferiore», o alle «classi in via di estinzione» o, ancora, al gruppo di coloro che sono «inadatti a vivere»[19]. Una volta inchiodati, per definizione normativa, ad una categoria, da questa condizione è preclusa ogni possibilità di fuga, giacché essa colpisce come una condanna senza remissione[20]: incatenato, dunque, «al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso»[21].

Allora, come ben evidenzia Satta, può anche essere che ciascuno sia «intimamente innocente, ma il vero innocente non è colui che viene assolto, ma colui che passa nella vita senza giudizio»[22]. Dunque è così, questo può essere il destino umano, vivere sovrastati da un Tribunale perennemente attivo, sempre pronto a giudicare e a condannare, mai disposto al perdono, giudice inflessibile, e che ci fa vivere come eterni accusati che si devono giustificare[23].

Del resto già nell’analisi del processo della Storia della Colonna Infame Manzoni osserva come «quell’infernale sentenza»[24], dopo la sua lettura, portava «que’disgraziati» a «confermare, anzi allargare le loro confessioni», cosicché la «speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte […], li fecero, a ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone». Il risultato è aberrante perché in tal modo «que’giudici» riuscirono «non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli»[25] .

Perciò, osserva ancora Satta, il «genio di Blaise Pascal ha fissato per sempre questa verità in un pensiero sublime: “Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme della giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio, che per una sedizione ingiusta”»[26].

Ma Satta ci dice anche che «il potente può non essere affatto davvero potente, è sufficiente che sia, in una situazione data, in posizione di forza rispetto all’altro che è in posizione di debolezza. La denuncia di Satta è denuncia del rapporto di potere che chiunque può instaurare rispetto a chiunque, e quindi di un potere che può incarnarsi in chiunque, solo che le condizioni […] lo consentano. Non ci sono onesti e disonesti, ci sono forti e deboli. E i deboli soccombono al giudizio dei forti»[27].

L’ignominia del giudizio, ha il suo stretto correlato nella vergogna: «sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei due signori, mentre l’altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore rigirandolo due volte. Con occhi ormai spenti K. Vide ancora come i signori, guancia a guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. – Come un cane! – disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere»[28].

Dunque di una colpa non commessa e persino ignota «si può portare vergogna, fino alla morte e forse anche oltre»[29], perché vergognarsi significa constatare di «non poter ovviare al fatto che non si è responsabili», di ciò di cui si porta l’ignominia[30]. La vergogna, dunque, come atto riflessivo, in cui «l’uomo vi esperisce se stesso come qualcosa che “egli non è”, ma che “pure è”, incontrovertibilmente»[31]. Come un cane!, appunto, incatenato ad una vergogna che gli sopravvive.

Ma la vergogna, è anche un lascito, che sancisce «un’innocenza al di là della virtù»[32].

La vergogna di Josef K. è in qualche modo imparentata con la vergogna che prova il giovane studente di fronte alla morte, nell’episodio descritto da Antelme nel suo libro L’universo concentrazionario: «la SS chiama ancora: – Du, Komme hier! È un altro italiano a uscire. Uno studente di Bologna. Lo conosco, lo guardo e vedo che la sua faccia è diventata rosea. L’ho guardato attentamente, quel sorprendente rossore l’avrò sempre negli occhi. Ha l’aria confusa e non sa cosa fare delle sue mani. Gli passiamo davanti. Nessuno lo tiene, non ha manette, è solo vicino al fossato e non si muove. Aspetta […]. Dei minuti passano. Ecco la raffica. Un crepitio unito seguito da colpi isolati»[33]. Ucciso. Come un cane!, appunto, e un attimo prima, «quel sorprendente rossore».

La vergogna – in un certo qual modo – è l’eredità che viene lasciata ai sopravvissuti dei campi di concentramento e che «rimarrà incancellabile per tutte le generazioni future»[34].

Chi è stato sottoposto al giudizio dei Lager (salvandosi oppure rimanendovi sommerso[35]) è sì innocente, ma la sua innocenza ha qualcosa di mostruoso che «si colloca al di là della giustizia»[36]. L’inverecondia dello sterminio chiede che non si possa sopravvivere alla sua vergogna e chi sopravvive, e rende testimonianza, è gravato del fardello della colpa e della vergogna. La colpa di non aver saputo aiutare il compagno più «debole, o più sprovveduto, o più vecchio, o troppo giovane, che ti ossessiona con le sue richieste d’aiuto, o col suo semplice “esserci” che già di per sé è una preghiera»[37]. La vergogna di essere «stati presenti senza averlo potuto impedire»[38], nonché quella di essere «vivo al posto di un altro»[39], quella che «sommergeva dopo le selezioni»[40]. La vergogna che il «giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua buona volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa»[41]. Infine, la vergogna che «non è solo la vergogna di fronte agli altri, ma può essere anche vergogna per loro»[42].

La vergogna per gli altri, dunque, per quanto hanno compiuto o hanno contribuito a fare delle vite altrui, «conterrebbe i germi di una denuncia, e di una testimonianza: di una reazione morale, di un’indignazione, verso qualcosa di ingiusto, di terribile, di cui non si è potuto che assistere in silenzio impotenti»[43].

Nella notte di Auschwitz (e anche in quella della Kolyma[44]), «il diritto autorizzava il carnefice ad essere carnefice. Il diritto sollevava il carnefice da ogni responsabilità, da ogni colpa – impediva o contribuiva ad impedire che in lui sorgessero conflitti di coscienza»[45].

Dalla notte di Auschwitz, i superstiti hanno imparato la comune necessità della degradazione – la fraternità dell’abiezione. Hanno appreso che umanità e responsabilità sono qualcosa che hanno dovuto lasciare fuori da quei cancelli che recavano il sinistro monito Arbeit macht frei. I superstiti sanno che i «salvati non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio»[46]. I superstiti sanno che la testimonianza che portano a chi non ha mai oltrepassato la soglia della casa dei morti[47] – e che sentono come un dovere – non è una giustificazione[48]. Osserva al riguardo Agamben come «peggiori i sopravvissuti lo sono non soltanto in confronto ai migliori, coloro le cui virtù rendevano meno adatti, ma anche rispetto all’anonima massa dei sommersi, coloro la cui morte non può essere chiamata morte». Questa è la «specifica aporia etica di Auschwitz: esso è il luogo in cui non è decente restare decenti, in cui coloro che hanno creduto di conservare dignità e rispetto di sé provano vergogna rispetto a coloro che li hanno subito perduti»[49]. Auschwitz segna così la fine di ogni etica della dignità, perché la «nuda vita cui l’uomo è stato ridotto, non esige né si adegua a nulla: è essa stessa l’unica norma, è assolutamente immanente. E il sentimento ultimo di appartenenza alla specie, non può essere in alcun caso una dignità»[50].

Ma forse è proprio con la sopravvivenza della vergogna che Josef K., ha conservato la sua umanità[51]. Perché, come accennato, la vergogna può ben essere vergogna che qualcosa del genere abbia potuto accadere, e che nulla si sia potuto fare per evitarlo. E questo è un «sentimento che solo “il giusto” può provare, appunto; perché serba in sé la memoria dei valori calpestati, e in nome di quelli opera l’unica difesa che può apprestarsi è quella di non stancarsi mai di “commentare” l’atroce, di “rappresentare” il negativo estremo; testimoniando però insieme in controluce il serbarsi nella memoria di quanto si è smarrito tra le atrocità della storia»[52].

[1] F. Kafka, Il Processo [Der Prozess, 1925], Trad. di P. Levi, Einaudi, Torino 1995. Scrive Levi nella sua Nota del traduttore, p. 254: «Poiché so che non esiste il modo giusto di tradurre mi sono affidato più all’istinto che alla ragione, e mi sono attenuto ad una linea di correttezza interpretativa, per quanto possibile onesta, anche se forse non sempre coerente di pagina in pagina, perché non tutte le pagine presentavano gli stessi problemi». Tra le varie traduzioni italiane de Il Processo, si ricordano anche quelle di E. Pocar, Mondadori, Milano 1971, di G. Zampa, Adelphi, Milano 1973 e di C. Morena, Garzanti, Milano 2008.

[2] G. Scaramuzza, Il processo e la colpa, in www.personaedanno.it.

[3] Ivi.

[4] W. Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus. Saggi e frammenti [Schriften, 1955], a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 293.

[5] B. Cavallone, La lezione di Titorelli, pittore e giurista (Kafka e la teoria del giudicato), in Riv. dir. proc., 2011, p. 633 ss.: «la condanna c’è già, e Josef se la porta dentro fin dal momento del suo surreale “arresto” (glielo ha detto in termini di saggezza popolare perfino lo zio di campagna Karl nel capitolo precedente: “avere un processo come questo vuol dire averlo già perduto”)».

[6] Come osserva S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994, p. 16, il contenuto della legge è sempre un «comando e il comando è per definizione un atto arbitrario, un atto di onnipotenza».

[7] Ivi, p. 17: ad esempio nel caso della pena di morte, il «giudice ucciderebbe perché la legge impone di uccidere: il momento dell’assassinio legale non sarebbe nel processo ma nella legge […] si tratterebbe di una questione di diritto sostanziale non processuale […]. Ma la realtà è che chi uccide non è il legislatore, ma il giudice, non è un provvedimento legislativo, ma un provvedimento giurisdizionale».

[8] Ivi, p. 18.

[9] Ivi, p. 24.

[10] A. Jellamo, Il terribile giudizio. Rileggendo Salvatore Satta, in M. P. Mittica (a cura di), Dossier Diritto e Narrazioni. Temi di diritto, letteratura a altre arti. Atti del II convegno nazionale della ISLL, Bologna 3-4 giugno 2010, in www.lawandliterature.org., p. 187.

[11] F. Kafka, Il Processo, cit., p. 164: ciò rivela la natura totalitaria del Tribunale, al quale appartiene tutto: dalle ragazzine che cicaleggiano dietro la porta del pittore Titorelli, al Sacerdote che predica all’interno del Duomo.

[12] La «sentenza non viene ad un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza», così il Sacerdote ammonisce Josef K. nelle tenebre del Duomo (ivi, p. 231). In proposito si veda anche W. Benjamin, Franz Kafka, cit., p. 293: la «dilazione è, nel Processo, la speranza dell’accusato – se il procedimento non trapassasse lentamente nella verdetto».

[13] F. Kafka, Il Processo, cit., p. 135. Osserva B. Cavallone, Il processo come infezione, in Riv. dir. proc., 2002, p. 586: il Tribunale «K. lo ha interiorizzato, metabolizzato, se lo porta dentro dovunque vada», anzi è «lui in realtà che lo attira, come dice già nel primo capitolo uno dei poliziotti (“il nostro ufficio … non cerca la colpa nella popolazione ma, come dice la legge, è attratto dalla colpa”); e ripeterà ancora il sacerdote nel nono (“il Tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai”)». In questo senso anche B. Capponi, Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non processo di Franz Kafka), in www.judicium.it., p. 29: «del Processo non ci si libera facilmente, è una malattia dalla quale non si guarisce».

[14] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 26.

[15] G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 17.

[16] P. Levi, Nota del traduttore, cit., p. 253.

[17] F. Kafka, Il Processo, cit., p. 162.

[18] S. Scaramuzza, Il processo e la colpa, cit.

[19] Si vedano H. Arendt, Le origini del totalitarismo [The Origins of Totalitarism, 1948], Trad. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 636; M. Horkeimer – Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo [Dialektik der Aufklärung, 1944], Trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1997, p. 208, laddove denunciano la pretesa che «sia colpevole anche la vittima». Ma si leggano altresì le parole di Gunther Anders: «da alcuni mesi ero rifugiato politico a Parigi e godevo già dell’onore di essere stato derubato della mia cittadinanza tedesca per merito di Hitler […]. Così anche agli occhi delle autorità francesi, avevo perduto la mia personalità, la mia identità, e il diritto all’esistenza ed ero diventato qualcosa (proprio così: qualcosa) un qualcosa di politicamente irrilevante, che non aveva propriamente il diritto di esistere, giacché nella Préfecture de Police (un vero e proprio Castello, popolato anch’esso soltanto da Klamm) l’esistenza non era dimostrata cartesianamente, ma solo esibendo un documento di identità. Chi non ne aveva uno, non lo otteneva. Così kafkiana era la nostra situazione di allora». Cfr. G. Anders, Kafka pro e contro. I documenti del processo [Kafka, pro und contra. Die Prozeß-Unterlagen, 1951], Trad. di P. Gnani e S. Dalena, Quodilibet, Macerata 2006, p. 6.

[20] R. Esposito, Bios, Einaudi, Torino 2004, p. 152.

[21] E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo [Quelques réflexion sur la philosophie de l’hitlérisme, 1934], con Indroduzione di G. Agamben, Quodlibet, Macerata 1996, pp. 33-34, il quale nota come nell’immaginario collettivo nazista l’uomo «non si trova più davanti a un mondo di idee in cui può scegliersi, con una decisione sovrana la propria verità – egli è già legato ad alcune tra quelle, com’è legato fin dalla sua nascita a tutti coloro che sono del suo stesso sangue», e dunque «incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso».

[22] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 27.

[23] S. Scaramuzza, Il processo e la colpa, cit.. Si veda anche B. Capponi, Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna, cit.: «inutile sperare nell’assoluzione. Inutile invocare un giudizio che non potrà esserci. Il tribunale sta dappertutto, tutti sono il tribunale, il tribunale recluta continuamente chi è intorno a te, e nessuno è disposto a giudicarti applicando la Legge che del resto pochi conoscono».

[24] «Quell’infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo rifabbricare in quel luogo», così, A. Manzoni, La storia della Colonna Infame, Einaudi [Biblioteca della Pleiade], Torino 1995, p. 651.

[25] Ivi, p. 651. Osserva G. Benvenuti, La verità alla prova. Riflessioni sul contraddittorio, Margiacchi – Galeno, Perugia 2013, p. 31: «lo scopo ultimo del sistema inquisitorio è la verità ad ogni costo, costi quel che deve costare. L’organo inquirente-giudicante formula un’ipotesi per cercare la verità, ma finisce per cercare la verità nella sua ipotesi. E così l’ipotesi diventa un teorema. Come nella manzoniana storia della colonna infame, la cieca caccia al colpevole si traduce spesso nella cieca condanna dell’innocente».

[26] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 27; B. Pascal, Pensieri [Pensées, 1669], Trad. di A. Bausola, Bompiani, Milano 2000, p. 730. Osserva A. Jellamo, Il terribile giudizio, cit., p. 192: «Bisognava che la condanna sancisse l’ingiustizia del Cristo, affinché la loro giustizia fosse salva. “Sia crocefisso”, urlano. “Ma che male ha fatto?” chiede Pilato. “Sia crocefisso”. Il potere della folla è più potente del potere di Pilato. La giustizia ebraica è più forte della giustizia romana».

[27] Ivi, p. 195.

[28] F. Kafka, Il Processo, cit., p. 250. Con riguardo alla frase Come un cane!, ne sono state rinvenute le radici nell’opera di von Kleist, Michael Kohlhaas: «un’altra vicenda giudiziaria consumatasi senza contraddittorio, e senza alcuna garanzia processuale, è narrata, nel contesto del XVI secolo, da H. von Kleist, Michael Kohlhaas [1810], con testo a fronte, Trad. di P. Capriolo, Marsilio, Venezia 2003. La battuta del protagonista, ivi, pp. 48-49: “Lieber ein Hund sein, wenn ich von Füßen getreten werden soll, als ein Mensch!”, “Meglio essere un cane che un uomo, se devo lasciarmi prendere a calci!”, che richiamò l’attenzione di R. von Jhering, La lotta per il diritto, cit., p. 137, è simile a quella di F. Kafka, Il processo, cit., p. 250: “Come un cane!”. Che “Franz Kafka amasse il racconto kleistiano più di ogni altro testo, che fosse solito recitarlo in pubblico e nella cerchia degli amici, assaporandolo frase dopo frase in una specie di appropriazione e condivisione libidinosa”, è detto, in maniera documentata, da H. Dorowin, L’Apocalisse di Sassonia, in H. von Kleist, Michael Kohlhaas, cit., p. XIII». Così G. Benvenuti, La verità alla prova, cit., pp. 70-71, nota 54.

[29] P. Levi, Nota del traduttore, cit., p. 253.

[30] G. Anders, L’uomo è antiquato [Die Antiquiertheit des Menschen, 1956], Trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, vol. 1, Torino 2003, p. 72.

[31] G. Anders, L’uomo è antiquato, cit., p. 70. Secondo Anders «la vergogna prorompe perché si è simultaneamente noi stessi e qualche cosa d’altro […] essa è anche il tentativo di liberarsi quest’altro», ma il tentativo è vano e «non lascia altra via d’uscita a colui che si vergogna, se non il disfattismo, il cercare di sprofondare […]. Le locuzioni “volersi nascondere sottoterra dalla vergogna” oppure “voler sprofondare dalla vergogna”, non sono metafore ma descrizioni appropriate» (p. 72).

[32] H. Arendt, Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento, in L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo [The Image of the Hell e Social Science Techniques and the Study of Concentration Camps, da Essay in Understanding 1930-1954], a cura di F. Fistetti, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 101, dove si osserva che i «campi di concentramento totalitari furono dapprima istituiti per persone che avevano commesso un “crimine”, cioè che si erano opposte al regime dominante, ma aumentarono mano a mano che l’opposizione politica diminuiva e raggiunsero il massimo della loro diffusione non appena la riserva di energie degli oppositori si esaurì».

[33] R. Antelme, La specie umana [L’espèce humaine, 1957], Trad. di G. Vittorini, Einaudi, Torino 2000, pp. 269-271.

[34] E. Hillesum, Lettere 1942-1943 [Brieven 1942-1943, 1986], Trad. di C. Passanti, Adelphi, Milano 2001, p. 94: «avevo cominciato a soffrire di timbrite, ci sono timbri rossi, verdi e blu, se ne può parlare per 24 ore su 24, è un tema inesauribile […]. In questo momento gli animi sono agitatissimi: tutti i timbri sono scaduti, è in corso una nuova classificazione, nessuno sa come sarà il prossimo convoglio di deportati, le liste devono essere rifatte e così altri traffici si giocheranno dietro le quinte. Stanno giocando un bel giochetto con noi, ma noi lo consentiamo, e la nostra vergogna rimarrà incancellabile per tutte le generazioni future».

[35] I sommersi e i salvati è il titolo dell’ultima opera di Primo Levi, Einaudi, Torino 1985.

[36] H. Arendt, L’immagine dell’inferno, cit., p. 100.

[37] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 59.

[38] E. Hillesum, Lettere 1942-1943, cit., p. 47.

[39] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 59.

[40] P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1990, p. 162.

[41] Ivi, p. 162.

[42] W. Benjamin, Franz Kafka, cit., p. 294.

[43] G. Scaramuzza, Il processo e la colpa, cit.

[44] V. T. Šalamov I racconti di Kolyma [Kolymskie rasskazy, 1973], Trad. di S. Rapetti, Einaudi, Torino 2005. Il lager siberiano della Kolyma è narrato da Šalamov in una serie di racconti il cui filo conduttore è l’abbruttimento, la depravazione, l’assurdità, la barbarie, l’abiezione, la pietà, la solidarietà, il coraggio, la lotta per la sopravvivenza, la resa, la morte, che hanno segnato il destino di milioni di persone nella Russia sovietica.

[45] D. Corradini H. Broussard, Filosofia del conflitto, in Il conflitto: profili giuridici e politici. Atti del XVIII Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica, Giuffrè, Milano 1995, p. 9 ss.

[46] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 63

[47] F. M. Dostoevskij, Memorie da una casa di morti [Zapiski iz Mërtvogo doma, 1861], Trad. di M.R. Fasanelli, Giunti, Firenze 1994, p. 10: «qui c’era un mondo a parte, ormai dissimile da tutto, con le sue leggi le sue consuetudini, i suoi usi e costumi, qui c’era la casa dei morti viventi, c’era una vita che non esisteva da nessun altra parte».

[48] Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 63: «Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico […]. Mi disse che l’essere io sopravissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanza fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto […] ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza […]. Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I “salvati” del Lager non erano i migliori […], quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie».

[49] G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 55.

[50] Ivi, p. 63. Scrive V. Frankl, Uno psicologo nei Lager [Ein Psychologe erlebt das Konzentrationslager, 1946], Trad. di S. Sipos, Edizioni Ares, Milano 1994, p. 43: «non abbiamo nient’altro, soltanto questo corpo nudo; non ci resta nulla, tranne questa nostra esistenza letteralmente nuda».

[51] M. Belpoliti, Senza vergogna, Guanda, Parma 2010, pp. 98-100.

[52] G. Scaramuzza, Il processo e la colpa, cit.

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